Approfittando delle prove di ”Orlando furioso” al Teatro Malibran – altra sede della Fondazione La Fenice di Venezia – abbiamo l'occasione per un breve incontro col maestro Diego Fasolis. Per parlare di quest'opera, naturalmente, ma anche delle sue recenti attività.
Breve pausa della prova generale di ”Orlando furioso”. Il melodramma di Vivaldi - già proposto a Martina Franca nel luglio 2017 con un cast straordinario - viene presentato ora a Venezia, frutto della coproduzione Festival della Valle d'Itria/Fondazione La Fenice. La regia è sempre di Fabio Ceresa, la guida musicale è nuovamente affidata a Diego Fasolis. Ed anche il cast veneziano – in parte eguale all'altro – promette di fare faville. Siamo nel camerino di Fasolis, maestro concertatore e direttore, tra i massimi specialisti di musica sei-settecentesca. Che qui però è senza i suoi Barocchisti. Al loro posto, un ensamble di bravi strumentisti de La Fenice.
L'Orlando furioso è forse l'opera più eseguita - sicuramente quella più registrata - di Vivaldi, sin dall'ormai storico recupero di Claudio Scimone, avvenuto quarant'anni fa. Come ha affrontato questa partitura? Sono stati necessari molti tagli per portarla a dimensioni ragionevoli per lo spettatore di oggi? Durerebbe oltre quattro ore, tenendo conto delle pause.
Beh, dico subito che per me “ragionevole” sarebbe l'eseguirla integralmente. Anche se in realtà all'epoca si faceva tutto ma, stando a teatro, non si rimaneva certo fermi e silenziosi come oggi. L'opera era un momento di socialità e di mondanità, si chiacchierava tranquillamente e il 'da capo' permetteva di riascoltare un'aria interessante. Certo, quando il Teatro La Fenice mi ha richiesto di contenere lo spettacolo in tre ore - pause comprese! - abbiamo dovuto fare dei tagli non indifferenti, nei recitativi ma sopra tutto nelle arie. In questa edizione ogni cantante ne ha praticamente perso una, il che è spiaciuto sia a me che agli interpreti. E' quindi una versione ridotta, però in qualche modo valorizzata dalla sua sinteticità.
Questo musicalmente. E scenicamente?
Quanto allo spettacolo in sé, nel momento in cui il regista Fabio Ceresa mi ha chiesto di trasportare un'aria del 3° atto al 1°, e fare qualche altro cambiamento, già stavo per lasciare la produzione. Però quando ho compreso che il suo ragionamento filava, e la messinscena sarebbe stata veramente spettacolare, sono stato al gioco; e devo dire che è un gioco che funziona benissimo. Insieme abbiamo allestito uno spettacolo godibile e coerente, che offre allo spettatore un'idea adeguata della raffinatezza e genialità vivaldiana. Che qui presenta anche tante soluzioni nuove e impressionanti.
Quella che vediamo a Venezia è la stessa versione dell'Orlando furioso del Festival di Martina Franca 2017?
Sì, è praticamente identica, a parte che le dimensioni del palco sono molto più piccole, il che rende complicato farla qui. Il cast è in parte lo stesso, e sono tutti bravissimi. Ma mentre là avevo la mia orchestra I barocchisti - che per me era come guidare un'agile moto - qui ho quella della Fenice. A questo proposito devo dire che trasformare una specie di Mercedes di lusso, qual'è l'orchestra veneziana, in una moto da corsa ha richiesto a tutti i suoi componenti un grande impegno. Però le cose hanno finito per funzionare, e sono molto soddisfatto del risultato ottenuto. Solo il flauto traversiere (strumento concertante nell'aria “Sol da te”, NdR) non è della Fenice, ma visto che viene comunque dalla regione, possiamo considerare anche lui un veneziano.
Domanda insinuante: parlando di melodramma, le sue preferenze vanno a Vivaldi o ad Händel, compositori che lei esegue molto?
Ho passione per tutti e due, naturalmente, ma un certo debole per Vivaldi. Non tanto quello de “Le quattro stagioni” e dei concerti, sin troppo suonato; ma piuttosto quello operistico, che stiamo poco a poco esplorando nella sua grandezza. Händel è venuto da giovane qui in Italia, dove ha scoperto tante cose; soprattutto ha capito qui come arrivare con il minimo sforzo al massimo del risultato; e in Italia si è creato il suo stile. Le opere händeliane anche fatte con orchestre moderne funzionano subito abbastanza bene. Vivaldi è più complicato, non puoi suonarlo così com'è scritto. Bisogna lavorarci con l'energia d'ogni singolo interprete, perché è molto difficile eseguirlo. Devo dire che c'è qualcosa nella sua musica che mi appare familiare, che mi affascina. Pensi che quando ero giovane mi dicevano che ero uguale sputato al suo famoso ritratto col violino: quindi forse anche biologicamente ho un rapporto preferenziale con lui. Händel è un genio di sicuro, ma in parte costruito; in Vivaldi vedo invece un musicista al quale le cose riescono subito, naturalmente. Tenga presente comunque che il mio autore preferito è Bach, suonato sin da quando ero organista; e la passione che Bach aveva per la musica di Vivaldi ci dice tante cose.
Maestro, oltre che un CD di Danze ed ouvertures, lei ha inciso con Cecilia Bartoli lo Stabat Mater di un compositore un tempo famoso ed anche molto studiato – penso ai celebri Duetti da camera – ma oggi alquanto trascurato: il veneto Agostino Steffani. Come è nata l'idea di questa bellissima registrazione?
Cecilia è sempre impegnata nella ricerca di autori poco conosciuti, per poi riportali in vita. Lo stesso Vivaldi operista deve a Cecilia - ed al bellissimo disco che lei gli ha dedicato - molta dell'attuale fortuna. Quanto a Steffani, ogni tanto bisognerebbe fare qualcuna delle sue 16 opere: è un genio assoluto, però uno di quei geni di transizione che traghettano la musica da un linguaggio all'altro; e nell'operare questa transazione scontano il fatto che poi saranno altri ad affinarne lo stile, utilizzarne le invenzioni, e da cui saranno sorpassati. Così come i compositori pre-rossiniani o a lui contemporanei vennero spazzati via da Rossini, o nell'ambito del Classicismo colossi come Mozart e Beethoven misero in ombra tutti gli altri. Ciò non toglie che oggi noi troviamo interessanti molti di quegli autori – come lo Steffani – proprio per questo loro ruolo di passaggio. Quando ci si accosta una delle sue opere, si scoprono le radici di quanto Händel scriverà 30-40 anni dopo, e si comprende quanto abbia imparato da lui.
Il suo ambito preferito pare quello della musica barocca, da Monteverdi in poi, testimoniato da una miriade di incisioni discografiche. Però lei negli ultimi anni partendo da tante opere di Mozart – a giugno la vedremo a Torino per Così fan tutte - è arrivato a Beethoven (penso alla Nona diretta a Vienna con il Concentus Musicus) ed a Rossini, di cui ha affrontato vari titoli. Persino a Bellini, con Norma di Salisburgo. Pensa di spendersi sempre più questo per repertorio operistico tra '700 ed '800?
Se pensa che io ho cominciato come rockettaro suonando il basso, deve capire che per me la musica non ha confini. In fondo non esiste musica bella e musica brutta, ma solo musica interpretata bene o male. Esiste anche un gigantesco repertorio sinfonico, che mi piacerebbe anche fare. Ma io preferisco restare in un ambito dove posso vedere in faccia tutti e pilotare bene l'orchestra. E questo è possibile sicuramente sino alla fine del '800, non oltre. Quindi andrò sicuramente procedendo in questo senso, ma valutando bene le proposte che arriveranno.
Lei è uno degli alfieri delle cosiddette esecuzioni “storicamente informate”. Per questo il Teatro alla Scala le ha commissionato due anni fa la fondazione di un'orchestra di strumenti originali, con la quale ha eseguito Il Trionfo del Tempo nel 2016 e il Tamerlano nel 2017, entrambi lavori di Haendel. Come procede questo progetto? Le sta dando soddisfazioni?
Questo progetto nasce dal fatto che Alexander Pereira aveva trovato interessante l'idea che l'Opera di Zurigo avesse un gruppo di strumenti originali, La Scintilla, curato da Harnoncourt; ed ha voluto proporre una realtà simile anche a Milano, affidandola a me. Operazione molto più difficile, sia per i molti compiti dei componenti dell'orchestra del Teatro alla Scala (che oltretutto suonano anche nella Filarmonica), sia perché la partecipazione a questo gruppo è su base volontaria. Partecipano al progetto solo quelli che lo vogliono, perché questo richiede ovviamente loro un ulteriore impegno. E non solo per l'impiego di strumenti differenti dai soliti. Ad ottobre con “La finta giardiniera” non affronteremo più il repertorio barocco ma quello classico, passando da un diapason a 415 a quello a 430. Sarà necessario un lavoro di affinamento, dato che di solito sono abituati a suonare a 440, e usare un diapason ancora diverso non è facile.
E' comunque un ensamble filologico tutto composto di strumentisti della Scala...
Certo, provengono tutti dall'orchestra del teatro. Solo in limitati casi, e per particolari esigenze strumentali, mettiamo dove serve qualcuno dei nostri Barocchisti. Per rispondere alla sua domanda, il progetto milanese continua e, mi pare, con soddisfazione generale.
Una curiosità: lei nato in Svizzera a Lugano, ma porta un nome italiano.
La mia famiglia infatti è italiana, anche se di origine spagnola. Dopo essersi stabilita in Sardegna ad Alghero – dove il Fasoles spagnolo è diventato Fasolis – la famiglia si è poi trasferita a Napoli dove è nato mio padre.
Bussano alla porta del camerino, il maestro deve riprendere la prova generale, non c'è più spazio per altre domande. Ci resta solo il tempo di fargli gli auguri per il suo imminente compleanno, dato che è nato il 19 aprile. Del 1958: giusto sessant'anni d'età, tappa significativa che sarà festeggiata nella Serenissima tra una recita e l'altra dell'Orlando furioso. Tutte esaurite, per inciso.